BEHIND THE SCREEN (Charlot attrezzista o Charlot macchinista, 1916)
REGIA: Charles Chaplin; SCENEGGIATURA: Charles Chaplin, Vincent Bryan; FOTOGRAFIA: Rollie Totheroh; PRODUZIONE: Mutual
INTERPRETI: Charles Chaplin, Edna Purviance, Eric Campbell, Henry Bergman, Albert Austin
ORIGINE: USA; DURATA: 23’
David (Chaplin) lavora come aiuto attrezzista in degli studi cinematografici. È maldestro e pasticcione e crea scompiglio nei set che attraversa mentre il suo capo attrezzista Golia (Campbell) è fannullone e prevaricatore. Una ragazza (Purviance) cerca di farsi assumere come attrice ma, essendo rifiutata, si traveste da uomo per lavorare come operaio.
Con Behind the Screen il mondo del cinema, a pochi anni dalla sua fondazione, è già oggetto di rappresentazione e satira. Chaplin ci aveva già provato tre volte, nei cortometraggi A Film Johnnie (Charlot fa del cinema, 1914), The Masquerader (Charlot attore, 1914) e His New Job (Charlot principiante, 1915), i primi due di produzione Keystone di Mack Sennett, il terzo prodotto dalla Essanay.
Ma Behind the Screen è quello più riuscito, una sorprendente e scatenata commedia slapstick dove Chaplin prende di mira proprio la componente industriale e seriale del cinema, con l’inevitabile battaglia delle torte in faccia che sembra quasi una citazione delle sgangherate farse di Mack Sennett. Ed oltre ad alcune gag esilaranti, del film resta impressa una delle prime rappresentazioni del travestitismo e dell’omosessualità al cinema.
Behind the Screen è uno dei pochi film nei quali il personaggio creato ed interpretato da Chaplin ha un nome (David). Infatti se nelle prime commedie si chiamava semplicemente Charlie o Chas, dal 1915 e dal film omonimo Chaplin lo battezzerà The Tramp (il vagabondo), nome che rimarrà fino al 1936 con Tempi moderni, dopo il quale il personaggio uscirà definitivamente di scena. Invece il nomignolo Charlot veniva usato solo in Europa, specialmente in Francia ed in Italia.
DIE PUPPE (La bambola,1919)
REGIA: Ernst Lubitsch SOGGETTO: da un’operetta di A.M.Willner, ispirata ai racconti di E.T.A.Hoffmann SCENEGGIATURA: Hans Kraly, Ernst Lubitsch
FOTOGRAFIA: Theodor Sparkühl PRODUZIONE: Union-UFA INTERPRETI: Ossi Oswalda, Hermann Thimig, Max Kronert, Victor Janson
ORIGINE: Germania; DURATA: 60’
Il barone von Chanterelle (Kronert), privo di eredi, pubblica un editto per maritare suo nipote Lancelot (Thimig). Si presentano quaranta fanciulle scatenate e il giovane, spaventato, fugge a gambe levate per rifugiarsi in un convento di frati crapuloni. I frati, ingolositi da una cospicua ricompensa che il barone promette al nipote se torna all’ovile, lo convincono a sposare…una bambola (Oswalda) costruita da un inventore.
Straordinaria commedia tedesca di Lubitsch nella quale si fondono elementi dell’espressionismo, del fantastico hoffmaniano, della farsa scatenata che ridicolizza tipi sociali e istituzioni.
Ma l’inizio del film è davvero sensazionale: “Die Puppe inizia con una sorta di prologo: con il regista, Ernst Lubitsch in persona, che da uno scatolone estrae delle piccole scenografie di cartone, una casa, un giardino. Poi tira fuori due bambolotti, che nella scena seguente si trasformano in due attori e il film può davvero iniziare.
Ecco il primo straordinario “tocco” lubitschiano, ecco la prima definizione del regista cinematografico, non dimostrata in astratta teoria, ma mostrata, esibita platealmente nel corpo stesso del film: il regista come un vero burattinaio, come un Collodi del cinema, che muove le sue marionette, gli oggetti, il paesaggio, tutto è nelle sue mani. Così descriveva il suo film lo stesso Lubitsch: “Die Puppe era una fantasia pura, con décors di cartone e addirittura di carta. Ancora oggi, credo che si tratti di uno dei film più ricchi di inventiva fra quelli che ho realizzato.” (da Un’ombra è soltanto un’ombra di Leandro Giribaldi).
L. Giribaldi
MATRIMONIO IN QUATTRO (The Marriage Circle, 1924)
REGIA: Ernst Lubitsch – SOGGETTO: dalla commedia Soltanto un sogno di Lothar Schmidt – SCENEGGIATURA: Paul Bern
FOTOGRAFIA: Charles Van Enger – PRODUZIONE: Ernst Lubitsch per Warner Bros. – INTERPRETI: Florence Vidor, Monte Blue, Marie Prevost, Adolphe Menjou
ORIGINE: USA; DURATA: 85’
A Vienna il prof. Stock (Menjou) è ormai ai ferri corti con l’inquieta moglie Mizzi (Prevost), la quale cerca di sedurre il dottor Franz Braun (Blue), marito della sua amica Charlotte (Vidor). Di quest’ultima è a sua volta innamorato il dottor Gustav, collega del marito.
Dopo l’approdo negli Stati Uniti nel 1922 e il flop di Rosita (1923), Lubitsch realizza il suo secondo film americano nel 1924, Matrimonio in quattro, che rappresenta probabilmente l’inizio di quel suo inconfondibile stile, allusivo e malizioso, che verrà in seguito denominato “the Lubitsch touch”.
Le cronache raccontano che Mary Pickford, protagonista e produttrice di Rosita,a proposito delle incomprensioni sul set con il regista berlinese riferisse indispettita che a Lubitsch interessavano solo le porte! Il commento poco benevolo della Pickford ci dà un indizio dello stile di Lubitsch: nel suo cinema gli ingressi e le uscite (le aperture e le chiusure delle porte) degli attori devono rispettare un ritmo perfetto, il ritmo deciso dal burattinaio di Die Puppe.
Per Lubitsch il cinema – soprattutto la commedia di cui diventerà l’indiscusso principe – è un meccanismo dai sincronismi perfetti. Così nel girotondo quasi schnitzleriano che è Matrimonio in quattro l’apertura e la chiusura delle porte rivestono un’importanza capitale. Per Lubitsch sceneggiatura e regia sono inscindibili l’una dall’altra (“Quando inizio a girare devo avere il film completamente in testa”) perché la precisione del meccanismo ha la funzione fondamentale di coinvolgere lo spettatore in un ruolo attivo all’interno della narrazione.
L. Giribaldi
AURORA (Sunrise: A Song of Two Humans, 1927)
REGIA: Firedrich W. Murnau
SOGGETTO: Hermann Sudermann
SCENEGGIATURA: Carl Mayer
FOTOGRAFIA: Charles Rusher, Karl Struss
MUSICHE: Hugo Riesenfeld
PRODUZIONE: William Fox per Fox Film Corporation
INTERPRETI: George O’Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston
ORIGINE: USA; DURATA: 97’
In un luogo imprecisato di vacanze, in campagna, una spregiudicata donna di città (Livingston) ha incontrato un contadino (O’Brien). I due sono diventati amanti ma lui è combattuto dal senso di colpa verso la moglie (Gaynor) e il figlioletto.
Melodramma che contrappone lo scontro fra città e campagna in una storia che vuole essere universale e simbolica, una “canzone per due esseri umani”, nella quale i personaggi non hanno nome: “la donna di città”, “l’uomo”, “la moglie”.
Per il suo primo film americano Murnau aveva avuto carta bianca dal produttore William Fox: così cercò di impiantare ad Hollywood la categoria del “film d’arte”, aiutato per la sceneggiatura da un altro esponente dell’espressionismo tedesco, Carl Mayer.
Diceva Murnau: “Dobbiamo tendere verso l’emancipazione da tutto quello che non rientra nel vero territorio del cinema, verso l’eliminazione di tutto ciò che è inutile, triviale e ricavato da altre fonti – tutti i “trucchi”, “gags”, espedienti, banalità estranee al cinema, ma desunte dalla scena e dal libro. E’ ciò che è stato fatto quando certi film raggiungono il livello della grande arte.”
Aurora, film poetico e visionario, colpì per le innovazioni tecniche: i movimenti di macchina, le sovrimpressioni, la fotografia, tanto che al primo Oscar della storia ebbe tre premi: miglior attrice, miglior fotografia e “film unico e artistico”. Nonostante questo Aurora fu un insuccesso commerciale ed i tre film successivi del regista di Nosferatu ebbero tutti difficoltà produttive. Murnau, uno dei grandi creatori di forme cinematografiche, morì nel 1931, a 43 anni, per un incidente d’auto.
L. Giribaldi
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